Mario Pavesi, usa il bronzo, la materia che preferisce con le sue luminescenze rinascimentali, i suoi riflessi che sfidano il tempo, come una materia non inerte, ma che ribolle, fermenta, ha una sua vita interiore che noi vediamo arrestata nell’opera che ci affascina e seduce, ma che potrebbe, in una durata infinita, che il nostro occhio e il nostro cuore non possono cogliere, continuare a lievitare, a germinare. In questo senso Pavesi è un umanista, che insegue una essenzialità immediata, totalizzante, sospesa tra sottile simbolismo e naturalismo, nel senso di riflessione sulla natura, di ricostruzione di apparenze e di suggestioni disperse che lo scultore raccoglie.
Ci sono un movimento, una dinamicità interiore, che si manifesta come energia, come sofferenza del nascere, del conquistare uno spazio intorno a sé, fatto d’aria e di luce, talora con dolcezza estenuante, talaltra con eleganza smemorata, ma spesso con dolore espresso da torsioni, precari equilibri, tormento di membra disarticolate, deformate, spezzettate in una metamorfosi che mentre dice di una esistenza ne presuppone il lento completamento, lo sviluppo ulteriore.
La morbidezza della pelle di queste opere è come una guaina che fornisce a loro una levigatezza classica, mentre torsioni, equilibri e deformazioni ci immergono nel nostro incerto presente. Questa pelle che avvolge, racchiude, accarezza e, in qualche modo, garantisce la possibilità di esistenze piene e complete.
Le “lacerazioni” di Pavesi non sono mutilazioni, sono solo questo sviluppo arrestato, contorto, parziale che cerca di raggiungere una perfezione che è possibile, che è, in una certa misura, già intuibile, già evidente in forma aurorale. Ed una completezza che non ha nulla di statuario, non è citazione di opere antiche presentate, come avviene spesso ora, con il rimpianto di frammenti di una classicità impossibile, insieme nostalgica e metafisica, nella sua malinconica inattualità. L’energia che anima le sculture di Pavesi dà ad esse un sentore di vita, intenso e vibrante, sia nella situazione drammatica della torsione, sia nella quiete di un distendersi nello spazio, di un farsi accarezzare dalla luce, sia nell’allusione di forme non umane, ma il cui schiudersi fa sì che neppure sfumino nell’allegoria o nel simbolico, sempre ben piantate sulla terra.
Pavesi, da uomo di Po, ama che i suoi stessi sogni siano ben radicati alla e sulla terra, che la pelle dolce delle sue sculture richieda mani che accarezzano e non solo sguardi contemplanti che si perdano in lontani spazi interiori. Il qui ed ora è sempre presente ed è materia, ma non bruta, non informe, anche nelle opere più arrischiate che arrivano quasi all’astrazione, come, perché si possa meglio capire, l’opera intitolata “ponte” del 2006. Non è neppure il non finito michelangiolesco, la materia nascosta che si libera con fatica, con dolore, con impeto. Le sculture di Pavesi non sono relitti ambigui tra natura, materia e forme umane segrete imprigionate in una fisicità dalla quale vogliono liberarsi: al contrario esse vogliono raggiungere la propria completezza corporea, vogliono annullare quelle carenze o quelle contingenze che impediscono loro di manifestarsi nella pienezza del loro essere, nella completezza della loro esistenza.
Sono opere che vivono in un eterno presente e quando anche il titolo con riferimenti a personaggi classici, voglia farci credere che ci hanno raggiunti da una mitologia profondamente compromessa con un immaginario classicheggiante, da apparire ambigua e confusa, queste immagini si stagliano solo come prototipi, come figure che hanno recuperato più di altre la propria umanità come espressione di una nostalgia di bellezza compiuta. Ed il corpo femminile con la dolcezza delle sue curve, con l’eleganza delle sue movenze, seppure bloccate nel bronzo, diventa, anche nelle astrazioni più estreme, fonte di una luminosità che le accarezza e le abbraccia, al limite della tenerezza, con una lieve sensualità che oltrepassa la materia inerte per farla vibrare in una tensione che avvolge la forma, il corpo aurorale che non è ancora sbocciato, ma è germoglio, fiore in boccio. Che si accentua ed acquista una particolare rilevanza nelle opere dedicate alla “maternità”, dove le forme si muovono in una specie di andare e ritornare che costruisce nell’opera una dinamica interna, che è sempre un abbraccio, è sempre un avvolgere, un racchiudere e proteggere. Opere come evocazioni, come stupefatta ed incantata celebrazione di un’idea che diventa un desiderio o un rimpianto. Come la vibrazione della luce è nelle “ballerine”, figure che si avvolgono nello spazio, si ammantano di una luminosità che scaturisce dalla loro patinatura, dal modo con il quale il bronzo è mimetizzato, trasformato, secondo un antico ed insieme straordinario sapere dei fonditori italiani, che Pavesi ha fatto proprio.
La patina tuttavia non vuol accentuare l’aspetto metamorfico delle opere dello scultore reggiano, ma rafforzarne ulteriormente la natura, in un certo senso, moltiplicandola per renderla ancor più affascinante e suggestiva, più intensamente rigorosa nell’adesione formale ad un progetto che si muove liberamente attraverso la storia della scultura, da vero artista postmoderno, che utilizza i linguaggi che gli sono indispensabili, hic et nunc, nell’immediato, nel tradurre nella forma plastica la tensione di una emozione, una vibrazione sentimentale ed emotiva, un’intuizione formale, costruita con sapiente determinazione, con estrema libertà, ma senza sperimentalismi fini a se stessi. Pavesi sa infatti parlare dell’uomo, anche nella sua frammentarietà, con intensa partecipazione, con un pathos che emerge dalle sue sculture, ancora una volta riallacciandoci alla tradizione ellenistica, alla antichità che riportava in terra la bellezza ben misurata e ponderata degli dei olimpici, impastandola con il dolore, ma anche con la solidarietà.
Una delle cifre della scultura di Mario Pavesi è la leggerezza, nonostante o contro la naturale gravità della materia che usa: la stessa lievità che ritroviamo nella sua pittura fatta d’aria di colori, che si diffondono sulla tela vaporosi e gassosi, seducenti nelle cromie ovattate o sfavillanti, nella inconsistenza volatile che li rende ariosi. Sono “i luoghi comuni”, le banalità, i pregiudizi, i falsi valori difficili da circoscrivere se non con tratteggi insieme approssimativi ed infantili, in una duplice visione di seduzione pittorica e di scrittura definitoria, di segno balbettante che cerca di inquadrare se non restituire un peso ed una forma a ciò che in fondo non è circoscrivibile. Grandi tele che danno il senso del piacevole straniamento e dell’impossibilità di ridurre ad ordine il rapporto tra natura e spontaneità, tra disordine e precari equilibri, tra rigore geometrico, quindi razionale, passione che esplode e si espande in un esplodere che nasconde il silenzio e la distruzione.
Marzio Dall’Acqua
Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma