L’opera di Mario Pavesi è come un lungo racconto che trae origine da radici tenacemente affondate in una tradizione classica. Ne risulta un sostrato costituito da un forte ancoraggio alla bellezza, a un sempre costante e concreto riferimento al dato della realtà delle cose. Ma esiste una basilare differenza tra fondare un’opera sulla sostanza della realtà e il realismo. La sua scultura, ad un primo sguardo, può apparire colma di riferimenti classici, intrisa di molteplici umori novecentisti e di una sorvegliata sapienza tecnica. E infatti molte delle sue realizzazioni sono rese con raffinati virtuosismi, senza che tutto ciò denoti, comunque, alcuna caduta in enfatiche leziosità. Ma legare la propria ricerca alle memorie della tradizione vuol dire soprattutto – è il nostro caso – avere voglia di narrare il mondo, di riflettere sulla vita, di indagare una dimensione onirica, sognata, psichica.
Nelle sue sculture i riferimenti e una pregnanza di forma quasi da reperto archeologico alimentano il residuo di una linfa vitale, di un anelito ad una nuova e raffinata grazia, alla memoria di un mondo in cui l’armonia dei corpi è confluita in parti anatomiche ipertrofiche e ingigantite che deformano l’equilibrio delle forme reali e che parlano di una cesura inevitabile col passato.
Ecco allora che può meglio palesarsi, sulla base di una riflessione più attenta, attraverso un progressivo processo di decantazione e d’indagine, la dimensione di una scultura che si materializza in inedite soluzioni plastiche, in strutture sempre complesse e polifoniche, capaci di far sussultare le corde dell’anima. Un brusio di fondo si leva dalle sue opere, per dar vita a composizioni che brulicano di soluzioni imprevedibili e inaspettate. Una ispirazione felice mostra il significato di una potenza d’espressione che trasporta oltre la beltà epidermica del semplice saper fare. Perché lo scultore porta alla luce una vitalità in grado di alimentare un intenso coinvolgimento col riguardante. Mario persegue con accanimento – da quasi cinquant’anni – una sua strada fondata sull’indagine del corpo umano in un rinnovato dialogo con chi osserva, oltre la sensualità di superficie delle sue opere.
«Ho un’idea antica e moderna della scultura» ama ripetere quando accenna al desiderio di rivitalizzare la dimensione delle forme sia attraverso un’indagine sul corpo – impronta dell’umana esistenza – sia alle residuali reminiscenze dell’immaginario classico.
Ma osserviamo ora alcune sculture per meglio comprendere il senso di tale affermazione.
In opere come «equilibrio» (2003) l’artista ribadisce il suo forte ancoraggio a una centralità intorno a cui si sviluppa la massa della scultura intesa in senso classico, calibrata su un modello di statuaria che può accogliere l’epifania di un corpo eroico, deformato e mutilo, archeologico e contemporaneo. Emerge qui una dimensione fisica possente e instabile, mentre torsioni consistenti, posture inconsuete, nodi e grumi densi di materia testimoniano la presenza inquietante di un chè di impulsivo e originario fremente sotto la superficie del bronzo, quasi a rispecchiare l’animo inquieto dell’artista che medita sul significato del suo fare arte.
Si osservi «torso maschile» (2008). Lo scultore cerca qui di coniugare una sintesi fra il peso del bronzo, la duttilità del disegno e lo sviluppo dell’invenzione. L’opera appare come un elemento tronco di una figura umana, un elemento utile per ricercare ancora la poetica del «frammento», per dialogare, in chiave di contestualizzazione post-moderna, con la contemporaneità, per sfidarne le dimesse derive.
Lo sguardo indugia ora su «figura maschile» (2002). Mario Pavesi dialoga da sempre col paradosso della fine della statuaria. Quando aveva iniziato il suo percorso estetico, a metà degli anni Sessanta, la scultura aveva già messo in atto trasformazioni radicali tra espressionismi astratti e forme essenziali di minimalismo o di concettualità astruse: ne scaturiva un linguaggio plastico in cui ogni implicazione formalistica di tradizione era ripudiata a favore di procedimenti e materiali in grado di attivare una diversa relazione con lo spettatore. La scultura aveva ripudiato il suo legame con la retorica celebrativa. Ma per il nostro artista era fondamentale riflettere su quanto restava di quella «lingua morta» e su come i riflessi di passate stagioni d’arte potessero ancora suggerire ispirazione nel presente.
Mario si capacitava, fin da giovane, del suo eccellente saper fare da sciolto modellatore, della sua capacità di agitare e dare vita a una materia creativa, fluente e dinamica che poteva tradursi in molteplici forme. Le sue mani, come cento mani, si muovevano sicure – da subito – e la terra si trasformava sulla spinta di una energia che cristallizzava il pensiero in opere.
Ma torniamo ad osservare le sue sculture. L’esecuzione è sorretta da una speciale vitalità, da una vigoria autonoma e da una reificazione adeguata ad esaltare il corpo vivo della forma con la più libera immaginazione. L’artista fa un uso intelligente dei frammenti scultorei come parte fondante del proprio linguaggio e riproduce le ingiurie del tempo sulla loro superficie, ricorrendo anche all’uso di impareggiabili patine.
Le opere di Mario Pavesi, è evidente, non appartengono alle mode effimere pilotate dal mercato dell’arte. Esse sono semmai portatrici del peso e del sentimento di una riflessione plastica e di una antica identità di cui la nostra cultura contemporanea sembrava assai ansiosa di smarrire i riferimenti. La scultura di Mario è dunque complessa e libera.
Lo dimostrano opere come «divinità fluviale», un bronzo del 2006; la «Pomona», un bronzo del 2009; «risveglio», altro bronzo del 2009. E ancora «meditazione», bronzo del 2011.
Appare in questi lavori una sorprendente ricerca quasi parallela in cui la rivisitazione della figura umana è un esplicito e diverso tentativo di ricrearla sotto aspetti nuovi e in inattese dimensioni di sintesi e di rapporto spaziale.
Inevitabilmente, per l’artista, affiora la memoria di quanto aveva visto e imparato, alla fine degli anni Sessanta, quando lavorava nello studio di Henry Moore.
Da tale sostrato emozionale e culturale nascono così personaggi ieratici e solitari, immobili e pensosi, e sguardi rivolti verso orizzonti di eternità divine. Nascono archetipi plastici scevri da qualsiasi lusinga edonistica: sono figure magiche calate in un bronzo trattato senza compiacimenti, con una naturalezza e risolutezza che lo esaltano quale materia docile e lieve che può raggiungere tali risultati solo quando si immagina l’opera ‘già’ in bronzo e ‘per’ il bronzo.
In tali realizzazioni si palesano soluzioni ideative differenti rispetto a quelle di cui avevamo accennato in precedenza: una vera e propria ispirazione parallela. Perché lo scultore segue percorsi stilistici talora dissimili, quasi stridenti: senza alcuna paura di sconfinare oltre i luoghi comuni di una riconoscibilità reiterata. Pavesi articola qui la propria vitalità in una più essenziale sintesi, per trasformare le figure in forme antropomorfe essenzializzate.
E la luce scivola e s’abbaglia sui loro profili sfuggenti e levigati e genera impalcature d’ombra delicatissime. La sua «Pomona», ad esempio, ricorda la morbidezza di una primitiva immagine cicladica. Un lessico arcano attraversato da fremiti astratti imprime intanto un superbo equilibrio ai volumi. Interpretare il corpo riducendo l’anatomia a volumi essenziali, a forme archetipe compendiate in invenzioni formali di grande nitore è l’opzione simultanea in cui si riassumono le soluzioni, la disciplina, il rigore e la libertà di un artista che non ha mai voluto compiere l’abiura dalla sua maestria.
È evidente che per Pavesi, come per la maggior parte dei maestri della sua generazione, c’è stata una inevitabile presa di coscienza del fatto che la scultura, nel dopoguerra, aveva ormai smarrito i tradizionali riferimenti alla rappresentazione del dato del reale e che occorreva prendere atto della frattura definitiva del canone antropomorfo. La scultura, in quanto ricerca estetica, creava ora solo la scultura. Ma Mario aveva imparato che c’era un solo sistema per rendere vive le sue opere, per far sì che si facessero portatrici di una melodia che toccasse gli occhi e il cuore delle persone. Occorreva instillare almeno un palpito d’umanità affinché il materiale non restasse inerte e gelido, come le pietre estratte dalla cava o come l’algida sensazione tattile del bronzo. Perché la trappola in agguato era il rischio di restare ancorato a un accademismo melenso e non coltivare la vocazione alla poesia. Ma ciò non è accaduto a Mario. La poetica della perduta bellezza apre, semmai, le pagine del diario di un naufrago che rappresenta fratture, dolori e isolamento. Apre il percorso umanissimo di un artista. E le opere si colmano degli echi e delle memorie di un uomo che ha cercato di dare forma e significato a una materia che volutamente doveva emanciparsi dal grande emporio dell’antico. E il sentimento della poesia, per quello speciale miracolo che sanno realizzare solo gli artisti, è riuscito a battere con una regolarità inimmaginabile, fino ai nostri giorni.
Gianfranco Ferlisi
La contemporaneità imperfetta: oltre il dialogo con la classicità