La tradizione plurisecolare della scultura italiana, fatta di forme dinamiche che occupano lo spazio interamente, che nascono da una intensa, continua e appassionata passione magistrale nell’uso di materiali eccellenti dal marmo alla fusione a cera persa, con saperi che hanno oltrepassato le stagioni e le mode, ha trovato uno straordinario sperimentatore in Mario Pavesi, artista che quelle tecniche aggiorna e sottomette in un linguaggio personale e totalmente contemporaneo, che si identifica con il nostro sentire. La ricerca di Pavesi è originale indubbiamente, ma declinata e sviluppata con quel linguaggio che è proprio della tradizione italiana non solo tecnica, ma anche figurativa, per la dolcezza di certe soluzioni, che ammorbidiscono e rendono intime forme che si contorcono nello spazio, lacerti umani che richiamano una incompletezza sofferente al limite dell’urlo. Riassumendo la scultura del novecento dal futurista Boccioni all’eccitato Wildt al morbido Alberto Viani, per citare solo alcuni punti fermi. Italiano per certe forme di confessione al limite della ingenuità sentimentale, che è un lasciarsi andare, una richiesta di un’ora di quiete, senza per questo rinunciare ai gesti di ribellione, di rivolta, alla rigenerazione aspirata e agognata, ma non ancora raggiunta. La costruzione della forma è inoltre razionale, logica, con un suo preciso ordine interno, anche quando appare più scomposta, ed il dinamismo è prima di tutto energia interna trattenuta, fermentante, germinativa, che si muove secondo regole segrete di armonia e di eleganza: ovviamente non formali, ma sostanziali come sono legate alla esaltazione del corpo umano, che è sempre un valore, che è positivo in ogni sua espressione e manifestazione, che traduce sentimenti, emozioni, saperi e scoperte. È dunque un italiano che di fronte alla bellezza del corpo umano si stupisce ed ammira: bellezza che ovviamente non è più quella dei canoni classici o classicistici, ma che percorre intimamente qualsiasi visione ed immagine della nostra tradizione, non riuscendo ad aderire alle esasperazioni, ai rifiuti ed alla negazione di altre tradizioni culturali e artistiche. C’è in noi il senso profondo ed autentico che nulla possa essere estraneo al nostro stesso essere uomo – il nihil alienum puto di Terenzio -, dove alienum è l’estraneità, ma anche l’impossibilità di alternativa o alterità che dir si voglia. Per questo chiusi nella nostra umanità ne siamo insieme prigionieri ed esaltatori nel contagiare con essa ogni forma esistente. Per questo, in altra occasione, ho scritto che: “Pavesi è un umanista, che insegue una essenzialità immediata, totalizzante, sospesa tra sottile simbolismo e naturalismo, nel senso di riflessione sulla natura, di ricostruzione di apparenze e di suggestioni disperse che lo scultore raccoglie”. Ed è per questo che nelle sue opere sono condensate una serie di passioni umane, spesso mescolate tra loro, dallo stupore e la meraviglia, che possono sfumare in teatralità di gesti ed in oratoria narrativa, che nascono, senza sforzo, senza contraddizione dalla materia e dalla sua sapiente elaborazione, che diventano racconto, intuizione, compassione e compartecipazione, fino alla immedesimazione da parte dell’occhio e dell’animo di chi guarda. Non si tratta mai
di un vedere statico, ma dinamico: bisogna muoversi intorno alle sculture, anche qui secondo la tradizione, affinché il nostro mutar di visione si incontri o si scontri con il movimento interno della scultura, creando e ricreando ogni momento ritmi, che fanno scaturire una musica segreta, interiore alle forme stesse e al mutare dell’aria tra noi e le opere. Pavesi rende esterna, visibile e grave di materia la sua ricerca interiore, il suo sentire, dà corpo al silenzio della sua creazione, senza big bang: le sue sculture nascono da una interiorità ma nel mostrarsi, nel prendere forma, con altrettanta concretezza, cercano un interlocutore per comunicare. Non sono un’operazione solipsistica, ma l’inizio di un dialogo, che l’opera è destinata a continuare nel tempo, per sempre, dicendo anche dello scultore che l’ha modellata, del suo mondo, della sua fatica, perché l’arte è insieme sofferenza e fatica. Anche la scultura ha un corpo ed una pelle, che nelle opere in bronzo, è data dalla patinatura, che nelle opere di Pavesi è quanto mai accurata e scelta in sintonia con la forma dell’opera che acquista così una lucentezza ed una dolcezza classica che attenua caso mai la violenza delle contorsioni delle figure o le loro mutilazioni, i loro sforzi al limite dell’umano o accentua
la dolcezza di sospensioni, come in queste inedite, ad incominciare da “Quiete” un’opera raccolta in sé che ha l’eleganza di Brancusi, nell’avvolgersi su se stessa, oppure il senso di affaticata torsione di “Strappo generazionale” ed il limpido erotismo di “Fuoco sacro”, una specie di “sagra della primavera” di eterna giovinezza. Tanto sembra calibrata, calcolata e programmata la scultura, al punto che sembra conservare in sé il tempo della creazione, il silenzio nel quale è venuta crescendo, germinando, naturalmente, senza sforzo, ma acquistando corpo, forme in equilibrio che sono anche saperi tecnici, soluzioni estetiche cercate con pazienza e sperimentate nella materia e nel segno prima, altrettanto lieve, impalpabile ed aerea è la sua pittura, affioramento non mediato dell’inconscio, che ricorda Paul Klee. Appartengono ad una serie ininterrotta e, probabilmente, ancora incompiuta dedicata ai “luoghi comuni”, a tutto ciò che è banale, apparentemente vero, perché partecipato da tutti, ma in realtà vuoto d’esperienza e di sapere, sbuffi di nuvole in un cielo che non riescono ad indicare né la stagione né l’evoluzione meteorologica, irrealtà che appaiono evanescenti, affioranti, cangianti, ma anche filiformi, dita che indirizzano verso il nulla, segni di un alfabeto che non comunica, superfici graffiate da un desiderio di ordine, di chiusura, quasi a trattenere e imprigionare, che nelle ultime opere, diventa sempre più ossessivo e ripetitivo nel definire due spazi che si sovrappongono a chiudere apparenze di luminosità, mentre il colore dello sfondo, altrove così fresco e aereo, incorporeo nella sua veste pastello, diventa più cupo, più inquietante, più ossessivo ed incombente nella sua stesura piatta senza fremiti, solo talora macchiata da umori cupi. Sembra che la precedente ironia leggera e fantastica sulle banalità ed i pregiudizi che ci contagiano stia diventando meno tollerante, meno disponibile, più gravida di presenze future che come la sciabolata di luce aspirano ad un simbolismo meno trascolorato e più e meglio accentuato.
Marzio Dall’Acqua
Presidente dell’Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma