Il vento, per parafrasare Pablo Neruda, è come un cavallo che corre incessantemente per il mare e per il cielo. Ed è come questo vento instancabile che termina, all’improvviso, la sua corsa il cavallo scalpitante di Mario Pavesi: freme, si impenna e si erge sulle due zampe posteriori, in attesa che un ipotetico cavaliere azzurro (magari modellato dalla fantasia di Vasilij Kandinskij o di Franz Marc) cerchi di cavalcarlo. Ma è una inutile attesa. Il cavallo di Pavesi non si tramuterà mai in una figura che possa ricordare, anche minimamente, un monumento equestre. Il suo è un cavallo solitario e senza cavaliere, una creatura magnifica che si anima nel bronzo, che si muove con una energia primitiva, che si agita davanti a noi quasi fossimo il pubblico delle grotte di Lascaux, in Francia.
L’autore ci regala un correlativo oggettivo di eredità montaliana: lo stallone dai muscoli scolpiti e tesi in movimenti estremi, pervaso da un dinamismo inquietante, diventa l’immagine forte ed immediata del suo spirito, irruente, incontenibile e trascinante. Ecco perché questo magnifico animale non possiede la compostezza umanistica del cavallo del Gattamelata, virtuosisticamente realizzato da Donatello sulla piazza del Santo a Padova. E se quella di Donatello era un’impresa straordinaria, non più tentata dai tempi antichi per un’opera in bronzo e di tale dimensione, non meno epica deve apparire la realizzazione del nostro autore: un cavallo alto sei metri, tratto da un modellato in cui più di ottanta quintali di creta sono stati plasmati in una materia che da sempre ha accompagnato la storia della scultura. I negativi in gesso e una colata in poliuretano e resina sono stati il principale passaggio successivo, ma la preziosa scrittura di superficie, quella che si smarrisce nel percorso, aveva bisogno di un intervento ulteriore di raffinata ricerca. Così, sul simulacro in resina e poliuretano lo scultore ha steso un adeguato strato di cera, su cui ha continuato a lavorare fino a far emergere, sulle superfici, il piacere dei virtuosismi tecnici originari. È un processo difficile ma fondamentale perché la riverberazione poetica, quella che riscatta la fisicità della scultura dal materiale inerte di partenza, necessita di preziosi accorgimenti, finalizzati a restituire alle masse portanti che costruiscono la struttura dell’animale il senso completo del significato dell’operazione.
E come è stata titanica la realizzazione di un cavallo imbizzarrito che si innalza su due soli punti di appoggio, altrettanto imponente è stato lo studio tecnico che ha preceduto la soluzione finale, in cui adeguate intelaiature interne in acciaio sono divenute i supporti atti a garantire la resistenza dell’opera anche a fronte di catastrofi o violenti eventi sismici.
La scultura mi è apparsa davanti per la prima volta nello scorso luglio, all’imbrunire, sul prato che conduce alla casa dell’artista. E di colpo mi è nato il desiderio di capire il significato originario, profondo, di un lavoro tanto impegnativo, addirittura, per certi versi, faraonico. Perché e con quale fine l’animale era carico di una così evidente drammaticità?; perché e con quale fine l’autore aveva affidato il suo progetto alla vitalità e alla forza di un cavallo che, nella sua possente torsione, sembrava volersi liberare del peso della gravità e della pesantezza del suo corpo per librarsi verso il cielo?
Non era Pegaso, non possedeva l’incantata leggerezza del mito: era un cavallo vero, possente, vigoroso. Le sue membra erano solide come grandi massi di pietra e lo ancoravano irrimediabilmente al suolo. Poteva certo osservare il cielo e le stelle scintillanti che segnano l’omonima costellazione, ma il suo slancio, la sua spinta verso l’alto, pur restando ancorato a terra, lo trasformava in metafora della vita spirituale dell’autore, incarnava il suo ardore, l’amore per la vita e la lotta per l’esistenza. Era questo, dunque, il senso: il cavallo di Pavesi si impennava selvaggio e indomabile, incurante di qualsiasi ostacolo terreno, pronto a combattere la sua battaglia, fiducioso nel risultato finale o comunque determinato ad affrontarlo.
Un cavallo visionario, una bestia sgomenta, imbizzarrita e, nel contempo, giocosa si agitava davanti a me, nella tranquilla pianura della campagna di Novellara, come uno spettro inquieto. Sopra il cavallo una pallida luna, col suo tenue scintillio, dialogava sommessamente. E io rimuginavo sui frammenti di pensiero dell’autore, sul suo interrogarsi sul proprio percorso, sui molteplici messaggi che l’artista aveva affidato all’opera, oltre il limite delle immediate apparenze.
E, del resto, è la materia che si concretizza in immagini a pretendere che la verità, il risultato finale, porti al di là della soglia del visibile e faccia emergere, oltre – o forse grazie – alla concretezza della corporeità, una vitalità spirituale, capace di alimentare un coinvolgimento ben più intenso col riguardante.
Già in quella prima apparizione la potente massa di bronzo mi si presentava densa di memorie d’arte e di metamorfosi, impronta di un’esistenza difficile da riscattarsi col semplice scatto atletico delle membra, espressione simultanea di una grandiosa vitalità terrena e di una parallela fragilità di fronte al cielo, all’ineluttabile e all’ignoto. Quell’assolutamente terreno cavallo di Novellara, nel suo anelito impulsivo che fremeva sotto la superficie della materia, non poteva che rispecchiare l’animo inquieto dell’artista e la sua ricerca estetica mai paga.
Emerge dunque con chiarezza,, in quest’opera, un’idea antica, moderna e demiurgica del saper fare, un dialogo esperto e raffinato con una classicità che, come la stella polare, indica la rotta giusta e sollecita la sfida dell’abilità dell’artista, lo spinge ad una modellazione virtuosistica e, a tratti, antinaturalistica ed espressionistica. Ma l’abilità non basterebbe se l’Anelito di Pavesi, il suo cavallo, non fosse Arte autentica e dunque se non mettesse in opera, nel riguardante, meccanismi di scoperta, di piacere, di spinta contemplativa e meditativa, se non fosse in grado di diventare segno esplicito e parlante della vocazione dello scultore all’immaginazione interiore e alla narrazione.
Anelito ci parla anche delle matrici moderne di una cultura figurativa di Pavesi che va oltre il cubismo, oltre il surrealismo, oltre le astrazioni, in un dialogo serratissimo con la rivitalizzazione della cosiddetta «lingua morta». Il cavallo di Mario Pavesi è figlio della cultura, di una cultura fertile e forte, intesa, soprattutto, come bacino di un sapere plastico-figurativo, che evoca anzitutto patriarchi della scultura quali Henry Moore, Alberto Viani, Brancusi, Arp, Mitoraj, …
E quindi Anelito ci narra anche una storia, quella di un cavallo in cui i volumi assumono il peso specifico delle rocce e la dimensione di una stirpe possente ed estinta, di un cavallo che sembra dichiarare il lungo processo evolutivo da cui origina: è come se, nella sua tensione improvvisa ed inesaurita verso il cielo indicasse il punto di arrivo di un percorso che dura da secoli. È come se raccogliesse l’eredità di animali estinti come i dinosauri, soggetti ad una morte perennemente incombente ma mai rassegnati ad una fine che pretende tutta la resistenza possibile contro un inevitabile destino di cancellazione.
Così l’abilità dell’artista delinea, pur nell’estrema sintesi formale, le masse muscolari del cavallo, il suo muso allungato oltre la naturale anatomia, il collo in antinaturalistica torsione. Ne emerge un animale regale, dalle forme sinuose, scalpitante e turbato, con una folta criniera aleggiante, con una lunghissima coda che sembra muoversi come l’elica di un aeroplano, su uno sfondo che è teatro del dolore del mondo. E tutto è eroico nella rappresentazione, tutto sembra condensare i mille cavalli già immortalati nell’arte, in un’atmosfera di intonazione lirica che sgrana le infinite sfaccettature del gran gioco dei rimandi. Come non ritrovare qui, nell’impetuoso dinamismo dell’animale, nella furia indomabile del vigore, il cavallo de la città che sale di Boccioni che, proprio grazie alla pienezza della sua forza, delineava un chiaro riferimento simbolico all’evoluzione, al progresso, alla velocità, all’accelerazione dei tempi moderni.
Ma il cavallo furente di Pavesi ha una sua personale vitalità: si dimena veemente di fronte a un futuro irraggiungibile e che corre più velocemente della sua corsa. È un cavallo senza cavaliere, che si agita nel mondo tra passioni, istinti ed energia: e il cavaliere, forse il Cavaliere Inesistente di calviniana memoria, rappresenta la guida di riferimento, la presenza della razionalità e dell’irrazionalità dell’incedere. Risiede in questa solitudine, in questa mancanza, in questo fantasma, invisibile eppure presente, una chiave importante di lettura della messa in scena del dramma e della tragicità della vita. E non basta la forza del classico, con i suoi sussulti che rammentano i virtuosismi ellenistici del Torso del Belvedere, a riscattare l’antica esaltazione delle forme e dei volumi: questa è ormai esplosa verso strade distanti, tesa ad una joie de vivre che si rivela pienamente nell’emozione dell’intensità delle forme, dell’organizzazione di piani, volumi e vuoti. È questa esplosione emozionale che riesce a “mettere in scena” in modo compiuto la problematicità del nostro vivere, sempre in bilico fra equilibrio e smarrimento.
E a noi, spettatori, testimoni, interpreti della seduzione dell’arte in tutte le sue forme resta, di fronte all’opera, il piacere o lo straniamento di riceverne il messaggio, tra bronzee fattezze di grazia, poetiche suggestioni della memoria e rispettosa ammirazione del talento realizzativo.
Gianfranco Ferlisi
Anelito